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Nuove modalità deposito marchi

Con il Decreto 1 giugno 2021, n. 119, entrato in vigore il 9 settembre 2021, è stato modificato il Regolamento di attuazione al Codice della Proprietà Industriale.

Di seguito il link al sito della Gazzetta Ufficiale con il Decreto:

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/08/25/21G00128/sg

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Interessi moratori ed usura. Sentenza n. 19597/2020 delle Sezioni Unite

Le Sez. U., decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato i seguenti principi di diritto:

  • La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso.
  • La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché “fuori mercato”, donde la formula: “T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto”.
  • Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.E.G.M., così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista.
  • Si applica l’art. 1815, comma 2, c.c., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1, c.c., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti.
  • Anche in corso di rapporto sussiste l’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell’accordo; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, la valutazione dell’usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento.
  • Nei contratti conclusi con un consumatore concorre la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies c.c..
  • L’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 1697 c.c., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto.

Via libera ai licenziamenti in 4 casi

Con il D.L. 104/2020 si consente al datore di lavoro di recedere dai contratti in essere superando il divieto di licenziamento in 4 ipotesi:

  1. cessazione definitiva dell’attività;
  2. fallimento;
  3. stipula di un accordo collettivo aziendale con le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale con il riconoscimento al dipendente di un incentivo all’esodo;
  4. in caso di cambio appalto l’imprenditore uscente, ai sensi del comma 1 dell’art. 14 dello stesso D.L., potrà licenziare qualora i dipendenti vengano assunti dall’appaltatore entrante in forza di una clausola sociale fissata dalla legge, dal contratto collettivo o dal contratto d’appalto.

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Mantenimento dei figli solo fino a 30 anni: oltre questa età la capacità di mantenersi è presunta

Con ordinanza n. 17183, depositata il 14 agosto 2020, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato i limiti entro cui il figlio maggiorenne “convivente” può ottenere il mantenimento a carico dei propri genitori. Il Collegio ha puntualizzato, in particolare, che, ultimato il prescelto percorso formativo (scuola secondaria, facoltà universitaria, corso di formazione professionale), il maggiorenne debba adoperarsi per rendersi autonomo economicamente. A tal fine, egli è tenuto ad impegnarsi razionalmente e attivamente per trovare un’occupazione, tenendo conto delle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni. Segnatamente, alla luce del principio di autoresponsabilità che permea l’ordinamento giuridico e scandisce i doveri del soggetto maggiore d’età, costui non può ostinarsi e indugiare nell’attesa di reperire il lavoro reputato consono alle sue aspettative, non essendogli consentito di fare abusivo affidamento sul supposto obbligo dei suoi genitori di adattarsi a svolgere qualsiasi attività pur di sostentarlo ad oltranza nella realizzazione (talvolta velleitaria) di desideri ed ambizioni personali.

Se il paziente è stato adeguatamente informato non ha diritto al risarcimento del danno

La Suprema Corte ha chiarito che in caso di consenso informato lacunoso il paziente non ha diritto al risarcimento del danno se non prova che avrebbe rifiutato di sottoporsi a quel determinato trattamento medico qualora fosse stato adeguatamente informato. Pertanto, un consenso informato, correttamente formulato e sottoscritto dal paziente, non consentirebbe a quest’ultimo di richiedere il risarcimento del danno.

“in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2 e 13 COst., e art. 32 Cost., comma 2. – la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonchè un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell’ipotesi di omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l’accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria – le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione. Orbene tra gli elementi costitutivi della fattispecie del diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto alla autoderminazione cagionata dalla inesatta od incompleta informazione del medico volta ad acquisire la -valida e consapevole- manifestazione di consenso del paziente, non può prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata certamente diversa, ossia che avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico: ed infatti “la omessa informazione assume di per sè carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito -e l’esito infausto non si sarebbe verificato- non essendo stato voluto dal paziente. La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati…”
Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 15/01/2020) 26-05-2020, n. 9887.

Leasing traslativo: in caso di inadempimento da parte dell’utilizzatore al concedente la scelta tra richiesta dell’intero importo o possesso del bene

Con sentenza n. 8470, la Corte di Cassazione ha sancito che: “in tema di leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la clausola penale, che attribuisca al concedente, oltre all’intero importo del finanziamento, anche la proprietà e il possesso del bene è manifestamente eccessiva”. In quanto verrebbero attribuiti “vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, dovendo il giudice effettuare, ai fini della sua riducibilità ex articolo 1384 cc, una valutazione comparativa tra il vantaggio che detta clausola assicura al contraente adempiente e il maggior guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto”.

Il negozio chiuso durante lockdown non è tenuto a corrispondere il canone di locazione

Il Tribunale civile di Venezia ha stabilito che l’esercizio commerciale rimasto chiuso a causa del lockdown, imposto dalle misure governative per contenere il virus, «non è tenuto a pagare il canone per i mesi di chiusura», essendo il blocco dell’attività imposto da una causa di forza maggiore e non derivante da proprie responsabilità.

Il caso, di cui da notizia “il Gazzettino”, ha origine dal ricorso d’urgenza presentato da un negozio avverso le richieste di un noto centro commerciale della zona che aveva chiesto al conduttore di regolare il pagamento del canone di locazione relativo ai mesi di lockdown (febbraio, marzo, aprile), per una somma complessiva pari a circa 50.000,00 euro.

Ma il tribunale civile di Venezia ha ordinato al locatore di «non incassare alcun pagamento» dalla banca che ha emesso le fidejussioni a garanzia del versamento del canone di locazione, e alla banca ha ordinato di «sospendere o non procedere al pagamento» dei 50.000,00 euro chiesti dal gestore del centro commerciale per l’affitto del locale condotto in locazione.

Certamente la causa è solo all’inizio e dovremmo attendere la fase di merito per conoscere le sorti della sospensione d’urgenza.

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L’interior design è diritto d’autore. Lo conferma la Cassazione

La Suprema Corte con la sentenza n. 8433/2020, ha accordato tutela di diritto d’autore agli interni dei negozi.

In particolare, due note aziende di cosmetici hanno dato origine ad un contenzioso che ha visto vittoriosa una delle due aziende che aveva subito atti di concorrenza sleale e violazione del diritto d’autore per aver la concorrente copiato l’aspetto dei propri negozi, in violazione dell’art. 2 n. 5 L.A. che tutela “i disegni e le opere dell’architettura” ed anche perché la convenuta aveva copiato iniziative promozionali e commerciali ed aveva, tra le altre cose, ripreso il format del proprio sito web.

Il Tribunale di Milano aveva ravvisato  sia la lesione dei diritti d’autore della società attrice ai sensi dell’art. 2 n. 5 L.A. sia la concorrenza sleale parassitaria sanzionata dall’art. 2598 co. 1 n. 3 c.c. ed ha pronunciato condanna al risarcimento del danno liquidato in € 700.000,00 moltiplicando per 10 il costo pagato per la realizzazione del progetto.

Avverso la sentenza del Tribunale di Milano è stato proposto appello da parte della società condannata in primo grado ma la Corte d’Appello di Milano ha confermato al Sentenza di primo grado.

Avverso la decisione della corte d’Appello di Milano la azienda soccombente è ricorsa in Cassazione.

La Cassazione, investita della questione, ha confermato che “in tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale vi sia una progettazione unitaria, in uno schema in sé visivamente apprezzabile, che riveli una chiara «chiave stilistica», di singole componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile come progetto di opera dell’architettura, ai sensi dell’art.5 n. 2 I.a. («i disegni e le opere dell’architettura»), a prescindere dal requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile, non presente nella suddetta disposizione, o dal fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore, purché si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto da un problema tecnico-funzionale che l’autore vuole risolvere”.

Ciò posto, la Cassazione ha confermato l’intervenuta contraffazione operata della ricorrente.

La Cassazione ha invece accolto l’impugnazione per la parte relativa alla concorrenza sleale in quanto il Tribunale e la Corte d’Appello avevano ravvisato la sussistenza della concorrenza sleale parassitaria senza tuttavia verificare se le iniziative asseritamente copiate presentassero la necessaria originalità, come la ricorrente aveva contestato.

Inoltre, La Suprema Corte ha accolto il capo di impugnazione relativo alla condanna al risarcimento del danno pari € 700.000,00 in quanto il moltiplicatore usato dai giudici di merito non era stato motivato e risultava perciò arbitrario, in contrasto con il principio della liquidazione equitativa del danno. Pertanto, la sentenza della Corte d’Appello di Milano è stata cassata, e la causa rinviata alla medesima Corte in diversa composizione